In questa sezione pubblichiamo recensioni e riflessioni individuali su singoli testi e autori.

  • Ippolita.net (Indice)

    • Nell'acquario di Facebook.
      La resistibile ascesa dell'anarco-capitalismo.
      "Questa non è un'indagine oggettiva, al contrario, è soggettiva, situata e partigiana, basata su un assunto molto chiaro: il web 2.0, con Facebook in testa, sono fenomeni di delega tecnocratica e in quanto tali pericolosi. E questo a prescindere dalla funzionalità degli strumenti stessi, dal fatto che funzionino bene o male, che ci piacciano oppure che il detestiamo, che siamo utenti completamente succubi e ingenui o scaltri smanettoni." Così il collettivo di ricerca Ippolita introduce il proprio studio, acquistabile in formato cartaceo o disponibile integralmente online, nel sito Ippolita.net. Si tratta di un'analisi circostanziata e sistematica, ricca di cenni e riferimenti teorici, che si sviluppa in una trattazione vivace e mai banale, in cui il fenomeno Facebook è sezionato nelle sue componenti ideologiche, economiche, politiche, psicologiche e sociali, e in ciascuna di esse scrupolosamente approfondito.

      Si viene così a svelare l'ideologia anarco-capitalista che soggiace al social network che vanta oltre un miliardo di utenti attivi. Viene fatta luce con spietata acribia sulle ombre del cyber-utopismo, fondato su una forzosa compatibilità tra principi libertari - incarnati dai vari Wikileaks, Anonymous, ecc. - e libero mercato, legge naturale indiscussa che tale deve essere all'ennesima potenza, al riparo dalle limitazioni imposte da leggi e potere politico. L'occhio scrutatore di Ippolita va a stanare i non detti e le menzogne - prime fra tutte quelle del "tutto gratis" e della neutralità della rete -, smaschera la segretezza che si cela tra le pieghe del seducente vestito della trasparenza radicale; segnala con allarme la presenza di leggi non scritte, di note a margine non lette, come quella del "default power" ("Il potere di cambiare la vita online di milioni di utenti cambiando pochi parametri"). Le interpretazioni miopi e acritiche che attribuiscono intrinseca funzione palingenetica alle nuove tecnologie - e al web 2.0 in particolare -, nella cui natura sarebbe la liberazione dell'uomo da qualsiasi tirannia, e che quindi avrebbero ruolo nodale nei movimenti che agitano i regimi dittatoriali, cedono di schianto non appena si va a scavare nel profondo, a esplorare i veri motivi, fuggendo i pretesti - comodi ma fuorvianti - che allontanano dalla vista le reali cause degli squassi.

      Ma, come detto, non è solo una critica ideologica e politica l'obiettivo di Ippolita: oggetto d'indagine sono anche le dinamiche psicologiche che l'impetuoso avvento del social network porta con sé: "nemmeno l'uso di una tecnologia è neutro, perché modifica l'identità dell'utilizzatore". Alla pervasività di Facebook non ci si sottrae; anzi, vi si delegano con noncuranza sempre più rilevanti spazi di relazione, di intimità, di interesse. La promessa della macchina è che accettando ubbidienti le pratiche relazionali mediate dagli algoritmi del social network, adeguandosi ai suoi consigli e rispondendo alle sue domande si potrà gustare una fetta - non detta è l'effimera, ridicola dimensione - dell'agognata celebrità. Nella netta formula utilizzata da Ippolita: "Facebook è l'automarketing personalizzato di massa" Il vero, inconsapevole agnello sacrificale sull'altare del successo social è l'identità di ciascuno come Io autonomo e al contempo plurale, in quanto unione molteplice di differenti esperienze del Sé, in continua evoluzione e autentico proprio perché in relazione con l'Altro: "Nella realtà, le identità sono complessi fasci di qualità che vibrano, spesso dissonanti, e si modificano in maniera anche dolorosa". Per Zuckerberg e i suoi, invece, la coesistenza di più immagini di Sé è assenza di integrità; "nessuna profondità, nessuna complessità, nessuna ambiguità" è lo zeitgeist che muove le pedine: un eterno, piatto presente in cui non c'è memoria articolata in intricati arabeschi, gravata di oblii e scelte, ma "ricordo totale fissato per sempre in un profilo". Lasciare che un aspetto tanto delicato e fondamentale dello stare al mondo sia plasmato da algidi algoritmi che lavorano a fornire a ciascuno una definizione del proprio Io a fini commerciali, è un pericolo del tutto sproporzionato alla percezione che di esso si ha. Cedere le proprie informazioni nelle mani incantatrici della rete significa abbandonare il timone e accettare la deriva, la cui destinazione già è nota: "Io sono ciò che Google sa (la mia ontologia è l'epistemologia di Google)."

      Facebook arriva a lambire, e quindi via via ad abbracciare porzioni sempre più rilevanti del nostro Io e dei nostri rapporti interpersonali fino ad impadronirsene, e la pressione sociale ad aprire un proprio profilo sul social network è, soprattutto su giovani e giovanissimi, soverchiante. La socialità online s'infiltra a tal punto nelle vite dei suoi utenti, che questi la portano con sé in ogni dove, come ne fossero impregnati: le persone non parlano più su Facebook di quel che accade tra di loro, ma tra di loro parlano di quel che accade su Facebook, dello spettacolo in scena nell'"arena dell'esibizionismo masturbatorio collettivo" - secondo la folgorante definizione di Ippolita. "Nella società dello spettacolo massificata siamo tutti allo stesso tempo spettatori che applaudono e attori sul palco impegnati nella rappresentazione delle nostre identità virtuali". Paradossalmente, alto è il prezzo da pagare per chi sceglie di non esserci: inevitabilmente tagliato fuori, è elemento di disturbo; a forza messo a tacere o comunque inascoltato. Non cedendo alle lusinghe del social, rischia di venire ostracizzato nella vita reale. Insomma: non esiste. Se stare fuori significa non esistere, è perché l'appartenenza solipsistica è dura scorza, stordimento collettivo sordo a qualsiasi critica. Facebook assurge a luogo totale, in quanto ogni proposta di spazio alternativo è negletta, liquidata a priori con fastidio dall'imperativo categorico dell'"essere su Facebook". Quello che sbigottisce è l'assenza di crucci con cui - non "viene usato", ma - "si sta su" Facebook (l'abitudine lessicale è tutt'altro che casuale): impressiona l'acritica, docile accettazione della sedicente gratuità e semplicità dello strumento.

      La verità è che al di là delle promesse salvifiche - "condividi e sarai felice!" - e "nonostante la pellicola luccicante degli schermi tattili, la civiltà 2.0 è molto simile a tutte le civiltà precedenti, perché [...] gli esseri umani devono fare i conti con la coscienza della finitezza del proprio essere nel tempo (l'incomprensibilità della morte) e nello spazio (lo scandalo dell'esistenza degli altri, di un mondo esterno), anche nell'era dei social network digitali".

      Quella del collettivo Ippolita è un'analisi capace di straordinaria penetrazione, i cui affondi squarciano la coltre di intontimento della narrazione dominante che esalta con protervia le virtù catartiche della rete e la propone (o meglio: impone) nella sua illusoria maschera di "migliore dei mondi possibili". L'alternativa sta nella stessa proposta di narrazione diversa, nell'aprire le orecchie alle stonature rese afone dall'illusoria armonia dello spartito, sapendo che, svelato l'inganno, scossa la passiva condiscendenza, toccherà la fatica dell'osare nuovi modi di stare insieme, pensare e incamminarsi su strade non ancora battute.

  • Foreste - Robert Pogue Harryson (Indice)

    • "In ultima analisi, soltanto questo sembra certo: che quando noi non dichiariamo la nostra morte al mondo, dichiariamo la morte del mondo. E quando ciò avviene, la leggenda della foresta tace". Con queste parole si conclude Foreste. L'ombra della civiltà di Robert Pogue Harrison, docente di letteratura italiana alla Stanford University. Il saggio, uscito negli Stati Uniti nel 1992, fu pubblicato da Garzanti nell'estate dello stesso anno, in coincidenza con la conferenza di Rio de Janeiro che aprì il dibattito internazionale sulla necessità di proteggere i polmoni verdi del pianeta. Foreste appartiene ad un genere speciale di libri: quelli che non possono essere superati dal tempo, destinati ad indicarci un destino ancora e sempre possibile o a consentirci di guardare con occhi lucidi le scelte con le quali ci precludiamo ogni destino. L'àautore ci guida attraverso la storia poetica dell'immaginario occidentale e ne svela la scaturigine nella relazione tra foreste e civiltà. A partire dalle prime radure, capanne, villaggi di comunità senza parole, in cui la sepoltura dei morti iniziò a radicare gli alberi genealogici e quelli della conoscenza, Robert Harrison racconta la storia culturale delle foreste: da sempre fonte primaria della simbolizzazione in quanto lato oscuro, altro, al di fuori e tutto attorno ai luoghi dell'abitare umano. E' in relazione alla macchia, segnandone i confini e attraversandoli, che si snodano nei secoli le metafore e i simboli, le figure poetiche e immaginarie, mitologiche, filosofiche, psicologiche che hanno consentito in forme continuamente rinnovate l'apertura di orizzonti di senso. Una storia, la storia, iniziata con l'affermazione nel linguaggio, nel logos, della discontinuità uomo-natura: quindi con la necessità di creare spazi di significato nello spazio opaco e selvaggio, entrando e uscendo dal linguaggio e dalla natura per cercare sui margini, ai confini della civiltà, un senso che ci rimandi alla nostra condizione di estraniazione e, nello stesso tempo, di radicamento originario nella terra. E' l'esistenza delle foreste che ci ha consentito, mantenendo aperta la dimensione della loro impenetrabile opacità, di rinnovare la ricerca e la scoperta di un fondamento. Senza foreste, reali e immaginarie, senza ombra, senza il fuori, non ci sarebbe stato un dentro in cui abitare: l'esistenza della foresta ha garantito lo sfondo, prima ancora che alla nostra sopravvivenza, alla nostra relazione con la trascendenza. Fuorilegge, eroi, vagabondi, amanti, santi, perseguitati, reietti, smarriti, estatici, rivoluzionari, partigiani, folli: tutti sono usciti a cercare asilo nelle selve. Anche in quelle della mente, se è vero che la foresta, nella storia della letteratura, è apparsa come lo scenario di quello che la psicologia avrebbe chiamato l'inconscio della psiche umana. Il racconto di Harrison inizia con Gilgamesch e prosegue con Artemide, Dioniso, Platone, Omero e Virgilio, la Tavola Rotonda e Robin Hood, Dante, Petrarca e l'Ariosto, Shakespeare, Cartesio, Vico e Rousseau, Wordsworth, i fratelli Grimm, Marx, Baudelaire, Leopardi, Rimbaud, Shelley, Thoreau, Conrad, Sartre, Eliot, Beckett e molti altri: opere e autori nei quali ha trovato espressione il fatto che "Noi non abitiamo nella natura, ma nella relazione con la natura. Non abitiamo la terra, ma abitiamo il nostro essere-al-di-là-della terra. Non abitiamo nella foresta, ma in una esteriorità correlata con il suo spazio chiuso. La nostra vita non è sussistenza, ma trascendenza. Essere uomini significa essere già e sempre al di fuori del dentro costituito dalla foresta, in quanto la foresta è una misura della nostra esclusione. Noi esistiamo prima e sopra tutto al di fuori di noi stessi: le foreste sono eternamente correlate con la nostra trascendenza. La storia della foresta nell'immaginario occidentale è la storia della nostra auto-espropriazione". Nell'estate del 2007 abbiamo visto bruciare i boschi del Peloponneso, gli ulivi di Olimpia e di Delfi, la macchia mediterranea in Magna Grecia: abitiamo nell'età dell'oblio e il distacco dal passato culmina nel distacco dalla terra; l'oblio del significato di abitare la Terra ha reso le foreste metonimia dell'intero pianeta. Lo stupore originario dei nostri antenati, terrorizzati dal cielo infinito e tonante, li legò alla terra, cui affidarono i morti: la sepoltura umanizzò le loro dimore e il linguaggio divenne la casa della loro finitudine. Poi, dalle capanne alle cinta murarie, alle megalopoli, sino al villaggio globale, le foreste si sono sempre più allontanate dal centro delle radure, eppure hanno continuato a conservare un margine opaco, dove la storia incontra la terra e dove il logos preserva il suo fondamento originario e immaginario. Infine, ci stiamo dimenticando di abitare in una radura e il centro non è più in alcun luogo: scompaiono quei confini senza i quali la dimora umana perde il suo fondamento. Senza un fuori, non c'è più un dentro in cui abitare, ma se la desertificazione avviene all'esterno, le foreste non possono sopravvivere nemmeno all'interno: "Il deserto cresce, guai a colui che cela deserti dentro di sè" (Nietzsche, Così parlò Zarathustra). Che ne sarà, degli ombrosi boschi dell'inconscio, fertile humus dei sogni e dei desideri, radici di un immaginario irriducibile al campionario delle digitali immagini luminose? Come mantenere aperta la possibilità di una via di fuga dal progresso, o dalla castrofe, delle macchine e del denaro, verso la scelta di assumersi la responsabilità della terra? E' ancora pensabile che ciò possa accadere? Robert Pogue Harrison, a conclusione del suo viaggio struggente attraverso le foreste di simboli con cui abbiamo incantato la natura, indica due preziosi sentieri: "Come ciò possa accadere - perchè, quando, soprattutto se - resta imponderabile, ma è indubbio che, nella nostra epoca, potrebbe accadere soltanto in uno spazio catacombale". Perchè ciò possa accadere, infine, è necessario il lavoro di un certo tipo di pensiero, che provenga dai margini, dai confini, dagli interstizi dell'impero, cioè dalla "provincia: dove se capovolgete una pietra trovate terra, radici, vermi e insetti..." perchè nel momento in cui il pensiero abbandona " le province della mente, della nazione o dell'impero, esso non può più rimanere radicale". Quindi "Il tipo più importante di pensiero è invariabilmente provinciale, in una forma o nell'altra".

  • Elogio della Bicicletta - Ivan Illich (Indice)

    • Scritto in lingua francese e pubblicato per la prima volta oltre trenta anni fa, Energie, vitesse et justice sociale (così recita il titolo originale) è una lettura più che mai attuale. Prima di tutto perchè più che mai attuale è il protagonista dell'agile volume, l'uomo in bicicletta. Accorato, lucido, penetrante, mai gratuito nella polemica e ideologico nella critica, tecnico ma non tecnicistico, l'Elogio è insieme - come del resto le altre prove maggiori di Illich, da La convivialità a Descolarizzare la società - un vertice di critica sociale e un libro gradevole, aperto a tutti. Innanzitutto, aperto alle greggi di giovani al pascolo nei giardini dei fast food, omologati nell'asservimento a modelli comportamentali e tecnologici schizogeni vomitati senza posa da schermi che sembrano aver acquisito vita propria. Giovani pecore: segmento estremo di un'umanità annoiata che si limita a consumare, vedere e chiacchierare, poichè ha perso la capacità di vivere, guardare e parlare. E quando ci prova, a parlare, lo fa con la goffaggine di un'analfabeta di ritorno, ormai incapace di creare e sviluppare pensieri propri. Questa umanità riesce solo a seguire mode di discorso imposte da un "altro" mai presente alla loro vista, ma sì alla loro visione: mezzi busti, voci fuoricampo, inni pubblicitari lanciati da uomini politici nei dibattiti-teatrini, il "sentito dire". "Da qualche tempo è venuto di moda parlare di un'imminente crisi energetica" - così Illich introduce l'argomento del libro. Quella moda si dissolse pochi anni dopo nel brusio di fondo dell'informazione confusionaria e banalizzatrice. Ma le mode hanno la caratteristica che prima o poi... tornano di moda. Così, il tema della crisi energetica di nuovo svetta nel rutilante frastuono mediatico, sospinto dai su e giù (più su che giù) del prezzo del petrolio, dall'incetta di energia dei paesi emergenti, dal generale pessimismo (una moda pure questa) che aleggia in un globo che vuole essere sempre meno globale. Tra le tante questioni sul tavolo, quella della mobilità non è delle più marginali, ma anzi centrale non solo e non tanto per il ruolo effettivamente giocato nella partita energetica e delle emissioni, ma soprattutto per il suo valore simbolico, legato alla velocità. La questione è sintetizzabile nei termini seguenti. Gran parte dei nostri spostamenti si avvale di mezzi di trasporto che funzionano con carburanti fossili esauribili e, a quanto sembra, in esaurimento; il trasporto "fossile" ha paralizzato il traffico nelle città di mezzo mondo, aumentando paradossalmente i tempi di percorrenza, al pari dei livelli di stress cui è sottoposta la popolazione; i gas di scarico hanno contaminato i nostri polmoni e ci hanno resi inconsapevoli fumatori cronici. Tutti ottimi motivi per convincerci a lasciare a casa l'auto e utilizzare più spesso la bicicletta, abbandonata coperta di polvere sul fondo del garage. Ma sono altri e meno scontati i meriti di questo felice connubio fra l'uomo e il suo prodotto, tanto felice da allontanare anni luce i lugubri scenari faustiani e prometeici. Non vi è qui "vergogna" del creatore al cospetto della sua creazione: l'uomo domina il velocipede, non si fa dominare, neanche psicologicamente; e tramite quello egli domina la natura, brucia distanze che la sua sola forza fisica non gli consentirebbe di percorrere a parità di tempo ed esige una manutenzione alla portata di chiunque (anche del professionista urbano o del professore universitario). Non è questa, in fondo, la finalità ultima della tecnica occidentale: l'emancipazione dell'uomo dalle catene della terra? La bicicletta aumenta la velocità dell'uomo e lo solleva da terra quel tanto che basta a liberarlo dalla feroce tirannia dei suoi muscoli, dei suoi legamenti, delle sue ossa. Ma c'è altro. La bicicletta insegna all'uomo il controllo del suo corpo e ne riempie l'immaginazione, ossia ha un impatto benefico sulla sua salute psico-fisica; inoltre, favorisce il contatto sociale. Il che è l'esatto opposto dei mezzi di trasporto "fossili", i quali sottraggono all'uomo la conoscenza di sè e degli altri e lo rendono morbosamente dipendente dalla tecnica, frustrato da un persistente, semi-consapevole senso di inferiorità verso gli strumenti e da una sete mai doma di velocità... che rallenta il traffico urbano mano a mano che i mezzi "fossili" ne invadono senza criterio lo spazio. Altri validissimi motivi per cominciare a spazzar via la polvere dalla bicicletta in garage... "Il passeggero abituale non riesce ad afferrare la follia di un traffico basato in misura preponderante sul trasporto. Le sue percezioni ereditarie dello spazio, del tempo e del ritmo personale sono state deformate dall'industria. Ha perso la capacità di concepire se stesso in un ruolo che non sia quello del passeggero. Drogato dal trasporto, non ha più coscienza dei poteri fisici, psichici e sociali che i piedi di un uomo posseggono". Dunque, il singolare "cavallo di metallo" come massima realizzazione della tecnica che non rende schiavi, ma libera e permette di riappropriarsi del controllo perduto sui propri "poteri fisici, psichici e sociali". Forse, mai macchina inventata dall'uomo o essere vivente esistente in natura (homo sapiens non escluso) hanno superato in efficienza il combinato ciclista-biciclo, il quale peraltro - seguendo le intuizioni di Georgescu-Roegen - trae energia per via indiretta dal flusso sostanzialmente illimitato delle radiazioni solari, e non da una dotazione esauribile di combustibili fossili. "La bicicletta è il perfetto traduttore per accordare l'energia metabolica dell'uomo all'impedenza della locomozione. Munito di questo strumento, l'uomo supera in efficienza non solo qualunque macchina, ma anche tutti gli altri animali". Con il suo tipico scrupolo mai pignolo, Illich non manca di esaminare le invenzioni che portarono all'avvento della bicicletta: la ruota a raggi tangenti, lo pneumatico, il cuscinetto a sfere. L'utilizzo di quest'ultima invenzione è singolarmente condiviso con l'automobile, altro prodotto (certamente mirabile per ingegno) del positivismo ottocentesco. "Il cuscinetto a sfere aprì una vera crisi, un'autentica scelta politica: creò la possibilità di optare tra una maggiore libertà nell'equità [la bicicletta] e una maggiore velocità [l'automobile]". Non solo la bicicletta è termodinamicamente efficiente - afferma Illich - ma costa poco, richiede poco spazio e "crea soltanto domande che è in grado di soddisfare". La bicicletta apre la via a un mondo di "maturità tecnologica", quello in cui "il modo di produzione industriale è complementare ad altre forme autonome di produzione"; il mondo dei lunghi viaggi "senza fretta e senza paura... senza far violenza alla terra che l'uomo ha calcato per centinaia di migliaia di anni"; il mondo che "permette una varietà di scelte politiche e di culture". Non avete ancora gonfiato gli pneumatici ed ingrassato la catena? Josè Antonio Viera-Gallo (sottosegretario alla Giustizia nel governo di Salvador Allende) ebbe a dire che "el socialismo puede llegar solo en bicicleta" ("il socialismo può venire solo in bicicletta"). Altri tempi, tempi in cui ancora la bicicletta possedeva un'aura rivoluzionaria, quella che sul finire dell'800 mosse il generale Bava Beccaris a bandirne per motivi di ordine pubblico la circolazione nella provincia di Milano, divieto esteso dai nazifascisti all'intero territorio da loro occupato nell'Italia Settentrionale. Ma tutto è cambiato, e in questi tempi l'affermazione di Viera-Gallo non è proprio una buona promozione del mezzo. Possiamo allora abbandonarci alla banale parafrasi di un adagio qualunquista molto in voga, e dire che "la bicicletta non è nè di destra nè di sinistra"; magari, appena un po' reazionaria... Anzi, conservatrice, poichè - come ha scritto Günther Anders - in questi tempi di riarmo nucleare e politiche estere impazzite bisogna essere "conservatori", nel senso di adoperarsi in ogni modo per preservare la vita su questa terra. Senza sconfinare troppo, basterebbe osservare che "[u]n'analisi concreta del traffico svela la realtà che soggiace alla crisi energetica: l'impatto sull'ambiente sociale dei quanta di energia confezionati dall'industria tende a provocare degradazione, logorio e asservimento, e questi effetti entrano in gioco prima ancora di quelli che minacciano di inquinare l'ambiente fisico e di estinguere la specie. Il punto cruciale nel quale si possono invertire questi effetti non è, però, oggetto di deduzione ma di decisione" (seconda enfasi aggiunta). Non state ancora pedalando spensierati per le strade della vostra città?